Nel periodo ellenistico (323 a.C.-31 a.C.) si diffonde l’uso di un mosaico a ciottoli che prevede l’impiego di figure, dapprima geometriche, rese però in insiemi più regolari rispetto ai lavori precedenti, poi tratte dalla realtà, e un progressivo uso del colore. La policromia contribuisce, con l’impiego di aspetti dinamici, e con l’uso di sottolineature chiaroscurali che conferiscono un’impronta di tridimensionalità, ad accentuare il rapporto fra la rappresentazione e il reale. Questo tipo di mosaico viene realizzato solitamente per decorare l’interno di edifici –pubblici o abitativi– di particolare prestigio.
Particolare della caccia al leone. Pella, Macedonia
Nel corso del 4° secolo si afferma l’impiego di un’altra tecnica musiva: il cosiddetto mosaico a tessere o –per usare la terminologia latina– opus tessellatum. Anche nel caso dell’opus tessellatum le raffigurazioni potevano essere sia geometriche che figurative. Di solito le rappresentazioni figurative, storiche, mitologiche o semplicemente riprese dalla quotidianità –i cosiddetti emblemata–, si trovavano a sottolineare ambienti di particolare rilevanza, per lo più inseriti come elementi di rilievo al centro di pavimentali geometrici.
Per questi lavori venivano impiegati materiali di grande pregio; spesso le tessere erano realizzate per mezzo del taglio di smalti, di prodotti vetrosi, che conferivano alle superfici suggestivi effetti cromatici per mezzo del gioco di riflessi che animava l’insieme.
Eraclito, Pavimento non spazzato, particolare. Roma, museo gregoriano
Il mosaico a tessere si diffonde in tutto il territorio greco e nei luoghi della Magna Grecia. A Roma si afferma dapprima e soprattutto il mosaico geometrico. La civiltà romana utilizzerà tale genere musivo applicandone le infinite varianti come complemento delle proprie architetture: con esso rivestirà ambienti di ogni dimensione e destinazione, dalle più umili alle più importanti –aule basilicali, edifici termali, ma anche ambienti delle domus, le abitazioni dei patrizi.
La geometria musiva diviene modo di misurare visivamente lo spazio, di muoverlo e abbellirlo. Il mosaico geometrico romano è sia di tipo policromo –come avviene soprattutto in epoca augustea–, sia bicromo, in bianco e nero. Spesso, come elemento centrale per gli spazi di rappresentanza anche i Romani, come già i Greci, utilizzavano mosaici figurativi di dimensioni variabili. Si tratta dei già citati emblemata.
Essi venivano in genere lavorati a parte dai mosaicisti, costruiti in cassette di terracotta o di marmo che poi, una volta terminata l’opera, venivano collocate all’interno del mosaico pavimentale, in uno spazio lasciato appositamente vuoto. Nella trattazione degli emblemata i Romani riducono progressivamente l’entità della tessera che assume, alla fine del I secolo a.C., dimensioni infinitesimali. Questo tipo di mosaico, particolarmente apprezzato all’epoca, prende il nome di opus vermiculatum.
Dioscoride di Samo, Musicisti ambulanti. Napoli, museo archeologico nazionale
Tra il 1° e il 2° secolo d.C. le raffigurazioni nel mosaico romano si fanno sempre più sintetiche. A questo nuovo desiderio di astrazione corrisponde, da un punto di vista cromatico, un alleggerirsi dei colori che porterà all’uso diffuso del bianco e nero, non solo nel mosaico geometrico ma anche in ambito figurativo. Col mosaico bianco e nero, i cui esempi più noti sono quelli di Ostia antica, ma che si diffonde in tutto il territorio romano, l’immagine si allontana visibilmente dalla realtà, con l’accentuarsi dei caratteri di stilizzazione e di astrazione.
Mosaico pavimentale con Medusa. Roma, circa 115 – 150 d.C. Digital image courtesy of the Getty’s Open Content Program
Un altro tipo di mosaico che si diffonde soprattutto in territorio romano è il cosiddetto opus sectile, che prevede l’impiego di lastre marmoree opportunamente sagomate e giustapposte in modo da formare l’immagine. La sagomatura dei marmi permette di fare sfoggio di nuovi virtuosismi tecnici; inoltre le pezzature del marmo, maggiori rispetto a quelle presenti nel mosaico a tessere, danno maggiore visibilità al materiale, esaltandone la raffinata preziosità, sottolineandone le variegature e gli splendidi colori.
Utilizzato già in epoca repubblicana, l’opus sectile, detto anche tarsia marmorea, avrà la sua diffusione maggiore in ambito imperiale. Tale tecnica è utilizzata sia in forme geometriche che figurative, come nella Testa del Sole proveniente dal Mitreo di Santa Prisca sull’Aventino a Roma (prima metà del 3° sec. d.C.), o nei lavori provenienti dalla cosiddetta Basilica di Giunio Basso, sull’Esquilino, anch’essa a Roma (prima metà del 4° sec. d.C.), dove, oltre ai marmi, si segnala, ad arricchire ulteriormente le raffigurazioni, la presenza di ori, paste vitree, pietre dure, madreperla.
Tigre che assale un vitello. Opus sectile del 4° d.C. Dalla Basilica di Giunio Basso, Roma
Molto usato era anche l’opus scutulatum, il cui impiego era sempre legato al desiderio di sottolineare la rarità dei materiali scelti; le scutulae, infatti, erano scaglie di marmi di particolare pregio e bellezza, la cui importanza risultava amplificata dal loro inserimento in superfici presentanti altre forme di trattazione.
Esempi di mosaici romani si trovano in tutta la nostra penisola; particolarmente interessanti e numerosi sono quelli che si possono ammirare in Emilia-Romagna. Tra i tanti si ricordano la Scena di porto di Rimini (2° d.C), i mosaici in bianco e nero del Museo Archeologico di Parma (2° d.C.); il Mosaico di Orfeo della Domus del Chirurgo, sempre a Rimini (2-3° sec. d.C.); i pavimentali del Museo Archeologico di Faenza (5° sec.), quelli di Meldola (inizi del 6° sec. d.C.); infine i lavori della Domus dei Tappeti di Pietra a Ravenna, singolare ponte tra l’arte romana e quella più propriamente cristiana, dove compare tra l’altro, nella rappresentazione del cosiddetto Buon Pastore (inizi del 5° sec. d.C), un modello figurativo che si pone come una delle anticipazioni di quella che sarà l’arte bizantina.
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